Tante lingue, una sola voce: “no” al bullismo

Bullying, intimidaciòn, brimades, schikane, znęcanie się, Εκφοβισμός. Chissà in quante altre lingue trova modo di esprimersi quello che rappresenta un problema unico e universale: il bullismo. Termine spesso abusato e talvolta travisato, è utilizzato nella letteratura internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo, in cui il “bully” è “una persona che usa la propria forza e/o il proprio potere per intimorire e/o danneggiare una persona più debole” (Oxford Dictionary). E’ una manifestazione di antiche origini, largamente diffusa in ambito scolastico e divenuta oggetto di studio accurato e minuzioso solo recentemente. Quasi quotidianamente i mass media riferiscono episodi di aggressività tra ragazzi di età sempre più precoce, che a volte sconfinano nella brutalità. Certamente si tratta di episodi estremi, forse anche troppo enfatizzati e “gonfiati” dai mezzi di comunicazione, ma che costituiscono pur sempre la punta di un iceberg che va emergendo a velocità vertiginosa. La definizione che ne dà Dan Olweus, uno dei maggiori studiosi di questo fenomeno, è la seguente:
“Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”.
E’ il punto di vista di chi viene trasformato in vittima di azioni omertose, dietro le quali si nasconde una non-consapevolezza di ciò che si è fatto, quasi uno stato di incoscienza, di stupore: il non rendersi sufficientemente conto di stare per nuocere a qualcuno. La violenza, per alcuni ragazzi, sembra esser diventata un banalissimo gioco, un divertimento “alternativo” da praticare senza preoccuparsene troppo. E in questa tipologia di atteggiamento ha sicuramente un ruolo fondamentale l’influenza di certi spettacoli con contenuto brutale e sanguinario, che oggigiorno sono estremamente accessibili ai ragazzi. E’, infatti, sufficiente accendere la televisione per assistere ad ondate di violenza incessante, presente in numerosi spettacoli d’intrattenimento, film e perfino in alcuni cartoni animati:
“Il rischio dell’esposizione a modelli aggressivi non si traduce solo in un apprendimento del comportamento aggressivo osservato ma può allentare l’inibizione all’aggressività con la conseguente legittimazione del comportamento lesivo verso gli altri” (Montanari M.).
Molti ragazzi, purtroppo, assimilano questo tipo di messaggi senza riuscire più a rendersi conto della differenza che passa tra realtà e fantasia, e invece di provare disgusto per questa tipologia di spettacoli ne sono affascinati. E’ il segnale di un rovesciamento culturale, del ribaltamento di un mondo dove la violenza, invece di impaurire, diviene elemento d’attrazione.
“Ogni volta che la cronaca ci sbatte in faccia bande di nazistelli che picchiano ebrei o gruppi di ragazzi che sbertucciano un compagno troppo sensibile fino a indurlo al suicidio, mi domando in quale anno, in quale secolo siamo. (…) Se chiudo gli occhi, mi sembra di vederli sfilare al passo dell’oca: bulli, nazistelli, fanatici di ogni risma e colore. Avvinghiati alle loro patetiche certezze di cartapesta, al loro ridicolo senso del rispetto e dell’orgoglio tribale. Tanti ‘Io’ deboli raggrumati in un ‘Noi’ insulso. Li guardo e non mi fanno paura. Solo tanta pena. Spero che un giorno la vita li sorprenda davanti a uno specchio, costringendoli a vedere che siamo tutti sul medesimo albero. Anzi, che siamo l’albero, e chi dà fuoco a un ramo diverso dal proprio sta solo incendiando se stesso” (Massimo Gramellini).
Certo è che correggere i prepotenti risulta difficoltoso: sono tanti e tali i vantaggi che essi traggono dalla loro condotta, che difficilmente sono disposti a cambiare. Ma si può e si deve tentare. Si deve tentare, soprattutto, di agire sul gruppo, solitamente complice, a causa del diminuito controllo delle proprie tendenze aggressive, nel perseguitare e isolare la vittima. La scuola, luogo comunemente indicato come palcoscenico di atti di “intimidazione”, deve, magari proprio a partire dall’analisi e dalla discussione di eclatanti fatti di bullismo, insegnare ai ragazzi a confrontarsi con le proprie emozioni, a diffondere una cultura della solidarietà, della tolleranza, del rispetto reciproco anche nella differenza e nella diversità. Una cultura che, proprio diffondendo i principi cardine della democrazia, contribuirà a costruire una comunità nazionale più coesa e civile e di conseguenza anche più forte nell’affrontare le difficili e appassionanti sfide che il futuro riserva ad ogni individuo. No to bullying, no a la intimidaciòn, non à brimades, nein zu schikane, nie dla znęcanie się, δεν εκφοβισμός. Chissà in quante altre lingue trova modo di esprimersi quello che rappresenta il volere dell’universale collettività: “no” al bullismo.
Meli Marco IV A

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