“Δάκτυλος ἀμέρα”:Il tramonto del Sole

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Per millenni gli uomini si sono interrogati sull’affascinante concetto del tempo. Esso può essere definito molto semplicemente come la dimensione in cui si misura il flusso degli eventi. Ad ogni modo questo tema è da sempre centrale nella vita degli uomini. A lungo il dibattito filosofico ha cercato di definire il tempo in maniera precisa, portando gli studiosi alle più diverse conclusioni. Molti sono giunti alla conclusione che il tempo sia solo frutto dell’immaginazione umana, e dunque un concetto illusorio. Altri si sono invece concentrati sull’aspetto assoluto del tempo oppure sulla sua relatività. In qualunque modo lo si veda, il tempo è comunque un aspetto fondamentale della vita umana. Infatti, per quanto ci si sforzi, è impossibile fuggire dal suo scorrere, che prima o poi attanaglia ogni essere vivente terminando la sua esistenza. La vita umana, dunque, è fortemente condizionata dal fattore tempo, poiché essa, a causa anche della sua fragilità, dura, come diceva il poeta greco Alceo di Lesbo, quanto un dattilo.

È appunto nel mondo greco che si sviluppano alcune delle maggiori riflessioni dell’antichità sulla fugacità del tempo e, dunque, sulla caducità della vita. I Greci credevano che il flusso regolatore della vita fosse regolato da tre divinità, le cosiddette Moire: Cloto, Lachesi e Atropo. Esse erano figlie di Zeus e Themis (giustizia) e svolgevano il lavoro di sarte. Infatti le Moire svolgevano il compito di filare il filo della vita di ogni uomo: Cloto filava lo stame della vita; Lachesi avvolgeva il fuso, stabilendo la quantità di filo che spettasse a ogni uomo; infine, Atropo recideva il filo con affilate cesoie. L’inesorabile giudizio delle moire non poteva essere modificato nemmeno dagli dei. Ecco che la morte veniva vista come triste e inevitabile destino di ogni essere umano. E, proprio poiché nessun uomo poteva sfuggire al destino di morte, ci si interrogava su come si potesse trascorrere una vita realmente vissuta con così poco tempo a disposizione. Inoltre, poiché non c’era certezza alcuna dell’esistenza di un mondo ultraterreno, in cui ogni uomo avrebbe trascorso vita eterna e sarebbe stato punito o premiato per le azioni dell’esistenza precedente, si intensificava nei cuori dei Greci il desiderio di vivere nel miglior modo possibile. Questo tipo di mentalità fu tramandato, naturalmente, anche ai romani, e confluì, nello specifico, in Catullo e Orazio, i quali trassero grande ispirazione da poeti lirici greci come Mimnermo o Alceo che cantavano gli elogi della giovinezza, dell’ebrezza del vino e dell’amore. Dunque nascono splendide opere in latino, contenenti esortazioni a godere della vita e della giovane età, poiché «nobis, cum semel occidit brevis lux/nox est perpetua una dormienda» (noi, una volta che si è spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire un’unica, eterna notte). Dunque, poiché la vita dell’uomo è così breve, e ciò che lo aspetta dopo la vita stessa non è che una notte perpetua, si deve godere ogni istante dell’esistenza umana, cogliendo ogni occasione. Questa tematica è altrettanto importante nel Carme I 11 di Orazio, in cui egli esorta la sua Leuconoe a non chiedersi quale giorno gli dei abbiano dato a ogni uomo, poiché è illecito e al tempo stesso insensato, ma di sopportare quello che verrà. Dunque Orazio prega la sua amata di trascurare il segmento di tempo che è stato affidato loro dalle divinità, ma di filtrare i vini e in breve tempo troncare una lunga speranza, cioè di godere delle gioie della vita e dell’ebrezza causata dal vino, dato che il tempo fluisce impetuoso. Nasce così la celeberrima massima Carpe Diem (Cogli l’attimo), esortazione a ogni uomo a non lasciarsi sfuggire alcuna occasione, ma di vivere nell’immediatezza, affidandosi il meno possibile al futuro.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e l’inizio del Medioevo, la mentalità dell’uomo cambia considerevolmente, sotto l’enorme influenza della religione cristiana. La vita terrena viene vista come preludio a un’eterna esistenza dell’aldilà, con cui essa ha un legame stretto: il comportamento dell’uomo sulla terra porta a punizioni o premi eterni nei regni d’oltretomba. Dunque, l’uomo deve impegnarsi ad agire bene, seguendo i precetti della Bibbia e tralasciando i piaceri personali, così da poter giungere in Paradiso. Nella mentalità dell’uomo medievale si sviluppa quindi una sorta di disprezzo per il mondo terreno, che culmina nel De Contemptu Mundi di Lotario Segni (Papa Innocenzo III). Dunque la fugacità del tempo non è vista più come una causa di angoscia e di turbamento, ma una semplice conseguenza dell’imperfezione del mondo terreno.
Giunta la fine del Medioevo, vi è una vera e propria rivoluzione del pensiero umano. Nasce il cosiddetto pensiero umanistico, che pone al centro del mondo non più Dio, ma l’uomo. Viene dunque riconsiderata la dignità dell’uomo, e con essa, di conseguenza, quella della sua vita. Fiorisce il movimento letterario dell’Edonismo (dal greco edoné, che significa piacere). Esso si basa sulla ricerca dell’armonia e della bellezza terrena, sia di quell’armonia paesaggistica propria del locus amœnus che di quella procurata dalla bellezza del corpo umano. In particolar modo spicca un magnifico dipinto di Sandro Botticelli, la Nascita di Venere in cui viene espressa con grande magnificenza la nascita di una splendida divinità femminile dal mare, e dunque è presente anche l’elemento naturalistico. In campo letterario si riprendono i temi trattati da Orazio. Il maggiore esempio di ciò è costituito dal Trionfo di Bacco e Arianna, una canzone scritta dal grande politico Lorenzo De’ Medici. Il capo della signoria fiorentina esalta la giovinezza, la fase più splendida della vita umana, ma anche la più breve (…che si fugge tuttavia…). Esorta inoltre il lettore al divertimento, alla felicità, all’amore, poiché di doman non c’è certezza.
Successivamente, anche Torquato Tasso, nell’Aminta, riprende un simile pensiero, ispirandosi alla concezione di Catullo: bisogna amare, poiché la vita umana dura pochi anni, poiché il sole sorge e tramonta, lasciandoci vedere per poco la sua luce, e poiché dopo il breve giorno cala l’eterna notte.
Ma cosa accade nel mondo dopo la morte di un uomo? Si ferma forse il flusso del tempo, o continua a scorrere imperterrito, cancellando ogni traccia del passato? Dunque cosa deve fare l’uomo nella sua breve esistenza, oltre al cogliere l’attimo, se non cercare di lasciare una traccia di sé ai suoi successivi? Molti autori, dallo storiografo Sallustio al poeta Ugo Foscolo, hanno riflettuto su questa tematica. Nel proemio del De Catilinæ Coniuratione il grande storiografo dice «…Quo mihi rectius videtur […], quoniam vita ipsa qua fruimur brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere». (Per cui mi sembra più giusto […], poiché la vita di cui godiamo è breve, conservare il più a lungo possibile la memoria di noi). Dunque è necessario cercare di compiere azioni memorabili, in modo tale da essere ricordati per la maggiore quantità di tempo possibile. Solo in pochi riescono a raggiungere questo obiettivo, e solo loro sono degni di essere definiti grandi uomini, in quanto, con le loro gesta, buone o cattive che siano, essi sono riusciti in un certo senso a prolungare la loro vita, a diventare quasi immortali.
Analogamente, anche Ugo Foscolo, nel carme de I Sepolcri, esprime questo pensiero: anche se una tomba ben curata non offre nessun beneficio al suo possessore, in quanto esso, defunto, non sente più alcun dolore, e sarebbe indifferente per lui essere sepolto insieme a mille altri cadaveri o in un singolo e personale sepolcro, esso offre l’illusione che il deceduto continui a vivere nei pensieri dei suoi cari e dei suoi compatrioti, che dunque cureranno il sepolcro. Qualsiasi segno lasciato da un essere umano, dunque, può prolungare, anche di un istante, la sua esistenza.
L’uomo è dunque impotente di fronte all’inesorabile trascorrere del tempo, che in men che non si dica cancella ogni sua traccia. Ma non è possibile sorvolare questo sentimento di paura legata al fatto che un giorno ogni essere umano scomparirà. Dunque cosa si deve fare? Serve forse a qualcosa deprimersi? O è forse più utile sfruttare ogni occasione della vita æquo animo, in modo tale da lasciare un segno del proprio passaggio sulla Terra? Senza dubbio, è la seconda l’opzione da preferire.
Romolo Cannata IV A

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