Il tempo: tra un diem e l’altro

Unknown
«Dunque, che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio, però, spiegarlo a chi me lo chiede, allora non lo so più».
Con queste celebri parole Agostino d’Ippona espresse la difficoltà di definire il concetto di tempo. Tutt’ oggi è un interrogativo che si ripresenta, nonostante nel corso dei secoli in molti (scrittori, filosofi, matematici, scienziati) hanno cercato di dare una risposta, una definizione che possa calzare bene e rispecchiare il corso degli eventi. Da Seneca, che vede il tempo come unico bene fruibile dall’ uomo (solo il tempo è nostro), a Kant, che mette in relazione spazio e tempo, definiti rispettivamente senso esterno e senso interno: il tempo è la rappresentazione secondo la quale l’uomo riesce a cogliere le sensazioni del mondo esterno, in qualche modo filtrate dal mondo interno, ovvero il tempo stesso. Certamente, privo ancora di definizione propria, il tempo ha modificato, a volte stravolto, il pensiero dell’uomo e il suo modo di vedere e vivere determinate situazioni, attraverso eventi storici e culturali non indifferenti.

E’, comunque, incredibile come certe passioni ed emozioni possano essere immortali e riportate da autori e personalità appartenenti ad epoche diverse, ma uniti dalla stessa sensibilità. Lorenzo De’ Medici, con il trionfo di Bacco e Arianna, Catullo, con i versi dedicati a Lesbia, e Orazio, con quelli dedicati a Leuconoe, affrontano il tema dell’amore, quello della brevità della vita e, ancora, l’ avanzare della morte. Chi mostrandosi più accorto e riflessivo, chi, invece, meno giudizioso, invitano l’ intera umanità a godere della vita giorno per giorno.
«Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia; chi vuol esser lieto, sia, di doman non v’è certezza»
uno dei passi più belli, se non il più intenso e coinvolgente, della Canzone di Bacco, famosissimo canto carnascialesco di Lorenzo De’ Medici. Il poeta e mecenate fiorentino, attraverso una quasi salvifica e magica formula, che consiste nel ritornello assai ritmato, tenta nel miracolo di fermare il tempo e la luce della giovinezza, età di piaceri assoluti e godimenti. Proprio questo è il suo messaggio: godere pienamente delle gioie della vita (amore, bellezza, sensi) nella consapevolezza della loro fugacità. Lo stesso pensiero che nutre un grande classico come Catullo, che quasi sedici secoli prima aveva così scritto:
«Soles redire et occidere possunt; nobis, cum semel occidit brevis lux nox est perpetua una dormienda. Da mihi basia mille, deinde centum…»
“I giorni possono nascere e tramontare; noi, una volta che si è spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire un’unica, eterna notte. Dammi mille baci, e poi cento…” Nel Carme V catulliano, dedicato interamente all’ amata Lesbia, si dà peso alla brevità e alla fragilità della vita, alla gioventù che scorre troppo celermente, alla fugacità dei piaceri. L’ invito a Lesbia di vivere intensamente ogni attimo della sua vita, ad abbandonarsi all’ amore vero e passionale, è, allo stesso modo, una sollecitazione per tutti gli uomini, spronati a non sprecare tempo se non per godere della fugace vita.
Carpe diem è la locuzione latina, tratta dalle Odi di Orazio, che ha cambiato, stravolto il senso di vivere la vita di molti uomini, comuni e non. Leuconoe, destinataria dell’opera, viene esortata a non consultare inutili oracoli che possano rivelarle il futuro, di cui solo Giove decide il corso. E’ un chiaro invito a godere appieno, senza eccedere, dei momenti felici che la vita offre, a non immaginare un futuro che può solo creare angosce e preoccupazioni e a non contemplare un passato che condizionerebbe il presente, ciò di cui deve nutrirsi l’ uomo. Ed è proprio la ricerca della felicità, ponderata anche da Epicuro, la vera fonte di goduria dell’uomo stesso:
«La felicità. Si, la felicità. A proposito: cercatela tutti i giorni, continuamente, chiunque si metti in cerca della felicità ora, in questo momento stesso. Perché è lì, ce l’avete, ce l’abbiamo; perché l’hanno data a tutti noi, ce l’hanno data in dono quando eravamo piccoli. Ce l’hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l’abbiamo nascosto come fanno i cani con l’osso, e molti di noi l’hanno nascosta così bene che non si ricordano dove l’hanno messa. Ma ce l’abbiamo, ce l’avete; guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all’aria, i cassetti, i comodini che c’avete dentro, vedrete che esce fuori. C’è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa, ma è lì, dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all’ultimo giorno della nostra vita» (Roberto Benigni).
Marco Meli IV A

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