Sogno di un campione

Ruud Gullit of AC Milan in action with the ball during a Serie A match against Napoli on 1st May 1988 at the San Paolo Stadium in Naples, Italy.(Photo by David Cannon/Getty Images)
Ruud Gullit of AC Milan in action with the ball during a Serie A match against Napoli on 1st May 1988 at the San Paolo Stadium in Naples, Italy.(Photo by David Cannon/Getty Images)

Protagonisti: Alexander (padre),  Isabel (madre), Brian (figlio)

 

Tempo: 1989-2010 ( nel racconto le  date verranno raramente  specificate)

Luoghi: America, Giappone, Italia.

Antefatti. Una famiglia americana,  che da anni vive di disagi economici , è costretta a lasciare la propria  terra per cercare di vivere come fa  una qualsiasi famiglia che dà per  scontato il fattore vita. Trasferitasi  in Giappone, ognuno cerca di  aiutare l’altro: Alexander, nelle vesti  del padre, trova lavoro presso un’  officina di meccanica; Isabel, la  madre, riesce, casualmente, ad  intraprendere la professione di  insegnante; Brian è un ragazzo di 10  anni, che in poco tempo si  innamora di una suggestione  importante: giocare con la maglia  rossonera numero 10 nel prato di  San Siro, sotto le urla di quelle persone che gridano il suo nome. Una vita così travagliata non lo permette, ma la forza di puntare all’obbiettivo, lo spinge a realizzare il suo sogno più grande.

 

L’ACCADUTO (tratto da una storia vera)

La situazione doveva essere  risolta al più presto. Lo aveva capito Alexander che ormai da mesi se ne stava sul quel poco di divano che restava a pensare; oppure Isabel che, dietro a quel suo apparente sorriso, nascondeva in realtà strazio e apprensione. In quella famiglia si viveva di speranze accantonate; un “problema” davvero scomodo, aggravato, peraltro, dalla venuta al mondo del piccolo Brian (siamo nel 1989). Il bambino rappresentava, però, l’unica gioia dei genitori, bello e adorabile come il sole: occhi scuri (sul nocciola), capelli mori, che schiarivano di un biondo miele, un tondo viso e una bocca carnosa e sorridente, delle orecchie che sventolavano come le ali di un aquilone. Sembrava proprio che Brian fosse nato nel posto sbagliato. Difficilmente, difatti, sarebbe potuto crescere adeguatamente in un ambiente così misero.  Si viveva, infatti, in uno stanzino, fatto di un minuscolo bagno e una “cucina”, in cui passare e spassare diveniva complicato; niente luce, né acqua; per bere? Non si beveva, se non per assoluta necessità; mangiare? Niente cibo, se non fosse per quel caro del vicino di casa. Oh, scusate! Vicino di stanza. Passare gli inverni al freddo era divenuta cosa a cui essi dovevano adattarsi giorno per giorno; ripararsi dalle piogge torrenziali non era semplice se solo una tacca di grezzo legno fosse venuta giù. Alexander e Isabel vivevano nella sola speranza che il figlio potesse avere, in un futuro migliore, tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno: quindi  libri per andare a scuola, scarpe per giocare a palla, un letto per andare a dormire. Ma soprattutto avrebbero voluto che il figlio non venisse mai a conoscenza della povera condizione che divorava lui stesso e i genitori. Nei  primi annetti Brian appariva come un cucciolo coccolone: « Mamma, papà, vi voglio bene», diceva il piccolo, col sorriso stampato sul viso. La forza di sorridere alla madre non mancava mai, ma col passare dei giorni fu proprio quell’unico vincolo di comportarsi a due maschere che venne a mancare. Alexander continuava a non trovare un lavoro, gli sforzi della moglie si rivelavano vani; Brian, intanto, cresceva: uno, due e poi tre anni, quasi quattro. Ai perché del piccolo la madre e il padre non davano una risposta, poiché era proprio quella che essi stessi stavano cercando; chissà quanto pianse Brian: non poteva fare come facevano quelli della sua età. Ma un bel giorno, per la prima volta, il destino volle che fosse mutato il corso degli eventi. Bisognava cambiare aria, ripartire da zero e, come una vera famiglia, vivere, vivere e vivere. Non importava dove andare, né cosa, Alexander, Isabel e Brian, avrebbero potuto trovare in una vita in cui il termine stesso viene dato per una condizione scontata. Dall’ altra parte del mondo chissà quale sarebbe stata l’accoglienza per affamati di vita. E allora via per una terra che loro stessi non conoscevano, o meglio, non ne avevano avuto la possibilità, o per un motivo o per un altro. Destinazione? Il Giappone, la terra del “sol levante”. In quale città? Ma chi se ne frega! Alexander e Isabel non seppero mai dove in futuro avrebbero vissuto. In fondo essi non si sentirono mai in colpa per aver preso  la coraggiosa scelta di lasciare il proprio paese, e sin dai primi attimi si diedero da fare come mai avevano fatto: Alexander, non che fosse stato semplice, trovò impiego presso un officina di meccanica avanzata, sfruttando un annuncio di lavoro finanziato da un pub della città; Isabel, invece, trovò casualmente lavoro presso una scuola materna. I due non si mostrarono dapprima all’altezza: Alexander non fu mai  un esperto nel settore, e Isabel non che avesse  una modesta  istruzione; c’ era, però, un motivo ben valido purché i due continuassero nel loro disagevole compito: Brian. Il bambino , nel frattempo, è cresciuto: frequenta la scuola materna in cui insegna la madre, e coltiva sogni che solamente un uomo vero potrebbe realizzare. La famiglia, col passare dei mesi, trova anche un adeguata sistemazione, il piccolo diventa sempre più entusiasta, fa nuove conoscenze, gioca con gli amici, si diverte e si appassiona sempre di più. Tutto sotto i lucidi bulbi oculari di Alexander e Isabel: le lacrime che adesso sgorgano dalle loro palpebre esprimono soprattutto stupore e incredulità; sono lacrime che io stesso auguro a tutti quanti, perché in fondo la vita si costruisce giorno dopo giorno, proprio come hanno fatto loro. Il tempo, dunque,  passa, non si può certo fermarlo, come in fondo avrebbero voluto Alexander e Isabel, e Brian diventa più grande; ora ha 10 anni, frequenta la scuola elementare  e ancora ha tanta voglia di vedersi crescere, perché lui in questi anni ha coltivato un sogno in particolare: «Mamma, di’ alla maestra che da grande farò il calciatore». Ecco, proprio così. Chissà cosa intendesse Brian per “calciatore”: il calcio gli era sempre stato una passione sconosciuta, se non per quei due passaggi a palla  che faceva con i compagni  nel cortile di scuola. Il televisore. Eccone la causa. Brian aveva assistito ad una partita di calcio nel televisore. In Giappone, difatti, si era disputata una delle tante finali di Coppa Intercontinentale del “Magico Milan”, la squadra milanese più titolata al mondo. Brian, però, era all’oscuro di che squadra  fosse realmente il Milan: «Sai papà, ieri ho visto una partita di calcio. Giocava la Milan, e ha vinto. Ma che partita che ha fatto mister 10, ha segnato tre gol fantastici. Mi sa proprio che da grande vorrò giocare nella Milan con la maglia numero 10». Eh già. Il mitico Ruud Gullit per Brian era diventato “mister 10”, tre tiri  messi a segno per lui erano gol fantastici; papà non poteva certamente pensare che Brian dicesse  sul serio, e quel sogno diventò per il fanciullo un ossessione apparentemente irraggiungibile. Il calcio è passione, lo era per Brian, forse un po’ meno per il padre e per la madre; essi, però, cercarono di non ostacolare i desideri del figlio, perché in fondo Brian aveva solo imparato ad appassionarsi. In una delle solite mattinate scolastiche, venne chiesto a Brian di svolgere un tema: «Racconta cosa vorresti fare da grande», questa era la consegna. Un’ora di tempo per pensare e progettare in un fiume di parole: questo era quello che pensava di vedere l’insegnante. Si stupì eccome quando invece vide Brian  alzarsi deciso dallo sgabello di legno, poggiare una carta sulla scrivania e uscire dall’ aula, mentre gli altri si accingevano a riempire di parole quei bianchi fogli. La maestrina, piccola come una bambina, con nervosismo da una parte e angustia dall’altra, prese in mano la carta quasi immacolata, e iniziò a leggere quel poco che permetteva di farlo: «Cosa vorrei fare? Semplice: il calciatore. Vorrei giocare nella Milan con la numero 10». Schietto e comprensibile. Se non fosse perché “Milan” vuole l’articolo “il” e non “la”, Brian avrebbe preso il massimo dei voti. Il giorno successivo, una splendida giornata di sole, l’insegnante ritenne opportuno far presente dello scritto ai genitori: forse aveva capito la causa di un discontinuo rendimento scolastico dell’alunno che per molti docenti risultava essere impreparato o assente dalle lezioni. Brian che anche didatticamente era stato una soddisfazione per Alexander e Isabel, si era accorto stranamente che la scuola non faceva per lui, non era il suo posto. E nonostante fossero stati prontamente avvisati e, in qualche modo, rimproverati, Alexander e Isabel non vollero mai demolire il muro di desideri che Brian aveva costruito dinanzi a sé. A undici anni era già pronto a rinunciare agli studi per iniziare a nutrire questa sua passione. La madre e il padre, che in questi anni avevano accumulato un bel po’ di denaro grazie al loro lavoro, lo iscrissero ad una scuola-calcio di alto livello; Brian si mostrò subito uno “dai piedi buoni”- si era difatti allenato giorno e notte nello stanzino di casa col padre -, e ogni volta che tornava, piuttosto tardi, dagli allenamenti, non finiva di ringraziare i genitori per averlo sempre appoggiato. Compiuti 17 anni (siamo nel 2006) Brian poté completamente liberarsi dagli impegni scolastici, anche se un po’ controvoglia di Isabel, e si dedicò sempre di più a migliorare le sue doti calcistiche. Se voleva veramente essere un calciatore del Milan,  doveva allora far si che i riflettori di un intero mondo calcistico fossero puntati su di lui. E proprio qualche mese più tardi, favorito dal coach che mai dimenticherà, fu osservato da vicino da una delle più famose squadre del calcio giapponese: il Yomiuri. Alexander e Isabel non badano a spese, e seguono il figlio nel suo più grande sogno. La vita, però, è fatta anche di duri sacrifici: uno di questi toccò ad Isabel, che, a causa della lontananza dal posto di lavoro al paese di conquista di Brian, dovette, anche per assistere il figlio, licenziarsi, cosicché solamente Alexander poté alimentare le casse economiche della famiglia. Ma che importava! Per la soddisfazione dei suoi, Brian era un quasi calciatore professionista, militante della classe giovanile dello Yomiuri. Trovata un’altra sistemazione, Alexander e Isabel aspettano che il figlio possa ricevere la chiamata di un grande club: che fosse il Milan? Magari! Un anno dopo il sogno di Brian diventa sempre più concreto: la sua forza di apparire grande, di esprimere e di incantare, insieme alla pazienza di Alexander e Isabel, viene premiata: il CSKA Mosca, una squadra russa, di fatti, lo preleva dallo Yomiuri, considerandolo un giovane di buone prospettive calcistiche. Venuto a sapere dell’interesse, Brian, prossimo ai 18 anni, non esita e accetta il trasferimento, non prima, però, di aver fatto una dura scelta e un’ importante promessa: ora, infatti, dovrà riuscire a vivere senza un concreto appoggio di quelle persone che gli sono state sempre accanto, mamma e papà, a cui promette: «Mamma, papà, da qui sono partito e qui finirò; un giorno, non troppo lontano, tornerò da voi e vi ringrazierò per quello che sarò diventato». Detto ciò, la strada di Brian e quella di Alexander e Isabel si dividono provvisoriamente, e il giovane incomincia davvero ad incamminarsi verso quel sogno che metterebbe la ciliegina sulla torta su ormai soddisfacenti ambizioni calcistiche. Siamo nel 2006; per circa tre anni Brian, ben conosciuto nel  palcoscenico internazionale e considerato uno stipendio annuale di un certo livello, non smette mai di incantare i suoi caldi tifosi, che lo acclamano a gran voce. Lui però ha un unico desiderio, mai sfuggito e mai infranto. I 28 gol e i 29 assist  messi a segno in 86 match disputati non possono passare inosservati ai migliori “agenti 007” in cerca di giovani talenti; soprattutto se questi agenti appartengono al Milan. Ebbene sì. Il Milan, senza che Brian lo sapesse, aveva da anni messo gli occhi su di lui, aspettando il suo momento di massima maturazione calcistica per prelevarlo dallo CSKA Mosca. Sì. Prelevarlo. Brian era ad un passo dal Milan. E quando venne a saperlo? Muto, pietrificato, che sembrava una mummia. Una telefonata a mamma, una a papà, per far sapere che il Milan stava per portarlo a “casa sua”. Lacrime, pianti di gioia: Alexander, Isabel e Brian erano prima una povera e indifesa famiglia; Brian, che aveva in fin dei conti illuminato gli animi dei genitori, era ora solo un ventenne, ad un passo dal realizzare il suo sogno. Sei mesi di lunga trattativa, una “vita” ad aspettare il momento giusto. Alla fine, per la gioia sua e dei suoi, Brian, nel 2009, diventava un calciatore a tutti gli effetti rossonero. Ora, però, c’è una sola domanda da fare: quale numero di maglia fu affidato a Brian? Il numero 10, come fu spiegato al giovane stesso, “per gli occidentali incarna la classe, l’estro e il talento puro, ma soprattutto responsabilità”; ma proprio perché Brian appariva un ragazzo per bene e responsabile, che gli fu affidata quella maglia con sopra stampato prima l’1 e poi lo 0.Quella maglia che prima era stata di mostri sacri come Gianni Rivera, Clarence Seedorf o lo stesso Ruud Gullit. Ora, però, non sto qui a raccontare come Brian si comportò al Milan (sapeste quanti gol ha fatto!). Quante soddisfazioni che ha potuto regalare ai milanisti! Non ha però mai dimenticato da chi è venuto e soprattutto perché ora può dirsi un campione. Dopo anni, fece ritorno a casa, se così può definirsi il Giappone, con una voglia infrenabile di abbracciare Alexander e Isabel, come aveva promesso loro: « Mamma, papà, ora sono un campione, e questo lo devo a voi. Posso però dirvi una cosa di cui  sono certo: con voi mi sentivo già campione prima ancora che diventassi quello che sono adesso».

Marco Meli II A

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