Il coraggio di cambiare

ginevra

…E se ci penso, è così buffo, o forse, più che buffo strano, direi anche pazzesco, essere qui e adesso.
(Diario di bordo. Estate 1922)
E se il buongiorno si vede dal mattino, così era cominciata la mia giornata…così era cominciata la mia nuova vita. Avevo lasciato tutto, ogni cosa, e mi ritrovavo con quattro stracci e un paio di monete, non avevo bisogno di nient’altro, ma pensandoci bene, io non avevo nient’altro, da portare con me. Posso dire di aver fatto la cosa migliore, intraprendendo da solo questo viaggio, affascinante e terribile. Vengo dall’Italia, un paese appena distrutto dalla guerra, ma vi giuro, che una tristezza così non l’avevo mai vista negli occhi di nessuno. Persone in preda alla disperazione, abbandonate, che andavano affannosamente alla ricerca di qualcosa, non si sa bene cosa.

Figli che avevano perso i genitori e che piangevano, madri in preda al panico; intere famiglie distrutte, disperse, perché lo spazio per tutti, là sopra mancava. Io per fortuna fin lì c’ero arrivato, eravamo partiti da una decina di ore, ma mancava ancora una settimana, il viaggio era lungo, chissà cosa sarebbe potuto succedere. Notai che in mezzo alla folla si trovano tre o quattro persone piuttosto curate nel loro modo di vestire, mi chiedo il perché: cosa ci facevano lì? Due di loro, poco tempo prima si trovavano vicino a me, le sentivo parlare delle condizioni igieniche precarie, così le definivano… continuavo ad ascoltare le loro discussioni o per meglio dire, quel poco che riuscivo a capire. Poco dopo, decisi di cambiare aria, cercai di muovermi sulla barca, facendo forza, scansando le persone e rivedendo ancora lo stesso umore del giorno precedente, questa volta, doloroso e straziante. Tutti sembravano essersi pentiti di questo viaggio. Che non fossero pronti ad affrontare un così profondo cambiamento? E perché io non avvertivo tutta questa sofferenza addosso? …E continuavo a girovagare, mentre tutti erano accasciati sul pavimento o addossati alla ringhiera per vomitare; ma ad un certo punto, e questo mi sorprese, mi scontrai con qualcuno che sembrava avere uno stato d’animo più simile al mio che a quello di tanti altri. Riuscimmo a guardarci velocemente negli occhi, ma ognuno, poi, ha proseguito per la propria strada. Improvvisamente si alzò un forte vento, il mio sguardo si posò su un cappello e su un tizio che, stava cercando in tutti i modi di riprenderlo: un uomo pelato, sulla cinquantina, la prima persona a cui rivolgevo la parola: «Ecco a lei», «Grazie mille, piacere Giorgio» «Io sono Livio» e mi invitò a sedere con lui: « Senta, non vorrei essere indiscreto, ma mi piacerebbe sapere cosa la porta ad affrontare questo viaggio». «Beh, figliolo, ho una famiglia, lo faccio per loro… è stato così difficile lasciarla, già mi manca… guarda» mi diceva piangendo mentre prendeva dalla borsa una fotografia: «Mia moglie, i miei due figli… che probabilmente non vedrò crescere, sono distrutto, ma è meglio così…e tu, perché sei qui?» «Io?». Ricordo che rimasi a riflettere su questa domanda, nessuno me l’aveva mai fatta prima di allora, quali erano le ragioni per cui ero partito? «Sì tu» ripetè l’uomo, «…Sono alla ricerca di qualcosa di migliore, di una nuova vita». «Capisco, beh ragazzo, non voglio deluderti, sei giovane, è normale che tu abbia ancora tutte queste aspettative dalla vita, ma qui sopra, le abbiamo tutti, perfino io sogno di far fortuna…e tornare il prima possibile dalla mia famiglia, ma non è così facile come sembra». Queste parole continuarono a risuonarmi in testa, e se fossi dovuto rimanere dov’ero e non intraprendere questo viaggio? Ormai era troppo tardi per tornare indietro. Non si piange sul latte versato. In compenso avrei potuto piangermi addosso, come facevano gli altri, ma decisi di non fare neanche questo; a che sarebbe servito, poi? No, io non sono il tipo, e inoltre, non posso di certo scoraggiarmi prima di arrivare a destinazione! Decisi di dormirci su, tutto il resto si sarebbe visto in un secondo momento. E com’era trascorso il primo giorno… anche il secondo stava passando, scambiando qualche parola con quei signori raffinati che mi avevano subito colpito, li osservavo sempre più attentamente e infine mi accorsi che nei loro bei vestiti, apparivano stranamente abbattuti; questo fu quello che mi spinse a rivolgergli la parola. Mi presentai con una scusa piuttosto banale, chiesi un accendisigari, e così passo dopo passo riuscii a farmi raccontare la loro storia. Scoprii che in passato erano dei banchieri, ricchi e potenti banchieri e, che per essersi indebitati con scommesse e gioco d’azzardo avevano perso e venduto tutto ciò che possedevano, quei vestiti, che si sarebbero presto sciupati, erano l’unica cosa che tradiva il loro vecchio status sociale. La notte tra il secondo e il terzo giorno, accadde l’impensabile, fui svegliato da alcune grida. Ma non me ne resi subito conto, piuttosto, mi presi del tempo per capire: lo scafo del vascello si era danneggiato, l’acqua stava cominciando ad entrare nella stiva e le persone erano costrette ad evacuare e gettarsi in mare. Era abbastanza palese che la nave sarebbe presto affondata. Io, lo ammetto, ebbi paura di saltare, non perché temessi di tuffarmi in acqua, bensì, perché quel tuffo rappresentava tutt’altro: era un salto nel vuoto, un completo salto nel vuoto. Cosa sarebbe successo dopo? La probabilità di sopravvivere era bassa, quella di morire, la più probabile. Decisi per la prima volta, da quando salii sulla barca, di fare quello che stavano facendo gli altri…e cioè buttarmi… tanto, cosa avevo da perdere? La vita, ovviamente. Ma intendo: Cosa avevo da perdere…che avrei potuto conservare rimanendo fermo dov’ero? Assolutamente nulla! E così mi affidai alla fortuna. Oltre ad essere degli emigrati, come se questo non bastasse, adesso eravamo anche dei naufraghi. La situazione degenerava. L’imbarcazione quasi non si vedeva più, eravamo aggrappati alle porte, alle travi e a pezzi di legno. La fame cominciava a farsi sentire, il freddo anche. Ci ritrovammo con meno cose di quante ne possedessimo prima. Ero cosciente del fatto che non tutti ce l’avrebbero fatta, e forse neanche io. Le prime anime lasciavano, ormai, i corpi più deboli, e i visi cominciavano a spegnersi. Ritrovarsi lì, con la consapevolezza di poter essere il prossimo ad andarsene è davvero agghiacciante. In pochi riuscirono a sopravvivere alla notte, e io, non chiedetemi come, ero uno tra quelli. La notte più lunga della mia vita…E io ce l’avevo fatta! Avevo tenuto duro, e adesso che il sole stava sorgendo, con il giorno sarebbe stato più facile, avremmo potuto imbatterci in altre navi che ci avrebbero prestato soccorso. Questo non avvenne, ma fortunatamente facendoci forza, riuscimmo a raggiungere un isolotto. Ci stendemmo a terra, stanchi, moribondi, eppure eravamo felici. Eravamo felici nella nostra disgrazia, perché avevamo toccato terra, alcuni addirittura la baciarono, eravamo salvi! Anche se solo per un momento. Sapevamo bene che ci saremmo imbattuti in altri pericoli, ma in noi si era accesa una fiamma di speranza: volevamo lottare, perché a differenza di altri poveri disgraziati, noi ce l’avevamo fatta a scampare alla notte e alla morte. Dopo una tranquilla dormita, ci organizzammo sul da farsi. Tre di noi avevano il compito di raccogliere la legna per il fuoco, un piccolo gruppo di andare a cercare qualcosa, qualsiasi cosa di commestibile e i restanti, compreso me, si dedicarono a costruire degli oggetti e un piccolo capanno. La sera ci riunimmo intorno al fuoco, inizialmente sembrava non avessimo niente da dirci, poi finalmente qualcuno parlò. Ognuno raccontò la propria storia e in seguito cominciammo a scambiarci delle idee su come fare a cavarcela; non tutti sembravano convinti. Io e Sebastiano, buttammo giù le idee più brillanti, eravamo i più determinati ad andarcene, a scampare definitivamente alla morte, a raggiungere la nostra meta e lo scopo per il quale eravamo partiti e avevamo affrontato questo terribile viaggio, che sapevamo sarebbe stato sempre più rischioso. La mattina del giorno seguente ci demmo da fare per cominciare a raccogliere delle abbondanti provviste, volevamo lasciare al più presto l’isolotto e così, costruimmo una zattera. Dopo due giorni, trascorsi a lavorare duramente, eravamo pronti alla partenza. Vagammo in lungo e in largo, senza una meta precisa, ci bastava trovare vita, ci bastava essere in salvo. Eravamo in mezzo al nulla, non avevamo idea di come ce l’avremmo potuta fare. Quando ormai eravamo ben lontani dal nostro punto di partenza e le nostre speranze si erano spente, accadde l’impensabile: una nave mercantile si trovò a passare di lì e così fummo salvi. Facemmo conoscenza con il capitano di questa, John, che ci spiegò la rotta della sua nave: eravamo diretti in America! Il tempo trascorso sulla “Red Dragon” fu alquanto piacevole, avevamo del cibo, dei vestiti puliti, delle coperte e una buona compagnia. L’equipaggio era composto da cinquanta uomini, tutti dei gran lavoratori e persone davvero socievoli; strinsi particolarmente amicizia con uno di loro, Rodrigo, allievo di coperta, un ragazzo scarno, ma capii presto che era di grande animo. Ci mettemmo tre giorni per arrivare a destinazione. In quest’arco di tempo ci venne un po’ insegnata l’arte del mestiere, così che, alcuni dei miei compagni d’avventura, quelli che l’avevano più apprezzata, decisero addirittura di accettare una proposta offerta dal capitano di restare a lavorare a bordo della nave. Io decisi di lasciarla. Cinque di noi avevano trovato il loro destino, tra cui il mio caro amico Sebastiano. Io e gli altri cinque ancora l’attendevamo. Ci separammo appena la nave approdò al porto, ci augurarono di trovare la nostra fortuna e così ci scambiammo una calorosa stretta di mano.
PORTO DI NEW YORK. Ne avevo sempre sentito parlare, la descrivevano come la città delle meraviglie, “ La grande mela” così la chiamavano. Mi sentivo un’ insignificante formica in tutto questo, quasi mi girava la testa, tanto ero spaesato: uomini che scaricavano e caricavano merci, venditori di pesce; più avanti bancarelle, mercanti, donne che erano intente a fare acquisti con pochi spiccioli, stoffe, cappelli, vestiti e profumi. Cominciai a guardarmi attorno sempre più attentamente, notai una vasta varietà di culture e che non tutti parlavano la mia stessa lingua. Mettemmo assieme le poche monete che c’erano rimaste e comprammo qualcosa da mangiare: del pane e della frutta, questi non bastarono certo a placare il nostro appetito, ma non potevamo permetterci altro. Dovevamo cominciare subito a darci da fare. Quindi, dopo esserci rifocillati, facemmo un giro nei dintorni, in quelli che sembravano essere i quartieri più poveri della città. Ci sembrò di aver ritrovato quello che avevamo deciso di lasciare. Ci appartammo in una delle tante baraccopoli, questa di fianco ad una famiglia con la quale facemmo conoscenza…E così trascorse la prima notte. Quando l’indomani mattina ci svegliammo, Giacomo e il figlio più grande, due dei membri della famiglia, ci invitarono ad andare a pesca. I due, pur essendo abili pescatori, possedevano una piccola barca e tiravano avanti vendendo quel poco di pesce che riuscivano a recuperare con la loro piccola rete, un po’ lacerata, e con le due fiacche canne da pesca. Per nostra fortuna, quel giorno, riuscirono a pescare una dozzina di pesci di media dimensione e altri più piccoli. Alcuni sarebbero divenuti il nostro pranzo della giornata, mentre altri erano destinati alla vendita al mercato vicino, dove ci recammo. Era una specie di mercato delle pulci, chiunque poteva vendere quello che possedeva o che produceva durante la giornata, così da guadagnarsi almeno il pane; i prezzi erano ancora più bassi di quel mercato dov’eravamo capitati il giorno prima e di conseguenza, la folla era il doppio: persone che litigavano, tirandosi pomodori o qualunque cosa si ritrovassero a portata di mano, per pochi spiccioli o per chi dovesse avere l’ultimo pezzo di carne. In tutto questo, riuscimmo a trovare un piccolo spazio dove sistemarci. Non ci volle molto prima che le persone si accorgessero della presenza di una nuova bancarella; così la folla, ancora affamata e bramosa di cibo, lasciava quelle che aveva già ripulito, per venire verso la nostra, colma di pesce fresco. Personalmente, questo mestiere non mi interessava e poi io aspiravo a qualcosa di più grande, se mai ci fossi riuscito. Trascorremmo due interi mesi con la famiglia, così da riuscire a guadagnarci qualche spicciolo; due di noi decisero di diventar soci di Giacomo, certo, per adesso il profitto scarseggiava, ma sognavano un giorno di diventare degli esperti pescatori. Così, le nostre strade si divisero; noi che eravamo rimasti, eravamo nuovamente alla ricerca della nostra fortuna, ma questa volta, avevamo almeno il necessario per restare in vita.
Decidemmo di spostarci verso i quartieri più prosperi della città. Era un mondo completamente estraneo a noi: grandi empori, botteghe di cianfrusaglie, abitazioni lussuose e gente imbellettata, dai vestiti vistosi ed eleganti. Tutto questo mi affascinava. Come potevamo noi, uomini dappoco, farci notare in tutto questo? Dovemmo ricorrere a qualche furtarello prima di concretizzare il nostro progetto. Eravamo rimasti ormai in quattro, tentammo, come prima cosa di vendere giornali, ma senza successo. La mossa successiva fu quella di cercare lavoro come operai in una delle tante fabbriche. Preferimmo una di scarpe, perché avevamo scoperto che il più veterano tra noi, che aveva addirittura provato la guerra sulla sua pelle, in passato era stato un abile calzolaio, ma aveva dovuto rinunciare al suo sogno per ricorrere alle armi. Per lui, tutto quello che avevamo affrontato finora non era stato niente, rispetto a quello che aveva vissuto in frontiera, adesso stava cercando solo un po’ di serenità e magari così avrebbe finalmente vissuto appieno il suo sogno. Due riuscirono a trovare impiego rispettivamente come fabbro e falegname. Così ero rimasto da solo. Tentai di farmi assumere in un piccolo ristorante emergente e ci riuscii, avevo abbastanza dimestichezza in questo settore, anche se, in realtà, non era il mestiere di cameriere che mi interessava, ma per adesso mi bastava. Ci lavorai per circa due anni, e nel frattempo, il ristorante era divenuto abbastanza frequentato e conosciuto. Lì a tutti era nota la mia passione per la cucina, ma diventai solo un aiuto cuoco perché non mi ritenevano all’altezza di occupare il ruolo più importante. Io, ovviamente, non conoscevo affatto la cucina americana. Tante volte pensai di licenziarmi, ero disposto anche a vendere i miei piatti in strada pur di cucinare, la cosa che desideravo di più, ma per fare questo dovevo avere strumenti che io non possedevo, e che non potevo neppure permettermi di comprare. Finalmente, ebbi l’occasione di farmi valere: riuscii a presentare un piatto della mia tradizione ad una cena molto importante organizzata da uomini potenti. Rimasero così esterrefatti dal gusto e dal sapore del piatto che mi presentarono subito a gente che aveva un posto molto rilevante nel settore, con gli agganci giusti riuscii ad apprendere nuove tecniche, nuove ricette e soprattutto la preparazione dei piatti locali. Finalmente mi assunsero come cuoco. Dopo tanti sacrifici, arrivai a mettere da parte i soldi necessari per avviare un’attività. Con quello che avevo guadagnato potevo permettermi solo l’affitto di una stanza e una piccola cucina. Assunsi tre dipendenti, i primi mesi il lavoro scarseggiava, era un ristorante emergente e anonimo, alle persone che passavano davanti non veniva voglia di entrare. Io, però, sapevo che i miei piatti valevano qualcosa. Cercammo in tutti i modi di far pubblicità al locale: locandine, degustazioni gratuite, tutto per avvicinare la folla e soprattutto per riavvicinare la gente che in precedenza era stata colpita dal mio piatto: adesso potevano mangiare tutto quello che volevano, perché il mio ristorante era lì e volevo che tutti lo sapessero! Poi, le cose, dopo tanti sacrifici, andarono migliorando, ma ce ne volle di tempo prima che questo ristorante dove ci troviamo adesso diventasse quello che è: beh, io posso dire di avercela fatta. Oggi, sono un cuoco affermato, uno dei più famosi e ho realizzato il mio più grande sogno: aprire un ristorante italiano tutto mio!

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